venerdì 21 gennaio 2011

DI CHI E' TUTTO QUESTO? ...DI MAZZARO' !!!

Mazzarò è un astuto arraffone "ricco come un maiale", protagonista di una famosa novella: "La Roba" di Verga (Novelle Rusticane, Torino, editore Casanova, 1883). Mazzarò che rappresenta un eccezzione al pensiero dello scittore, secondo la quale non è possibile modificare la propria condizione sociale, pensiero derivato dal pessimismo intrinseco al verismo. Comunque questo squallido personaggio narrato con la tecnica dello straniamento (cioè utilizzando un punto di vista estraneo all'oggetto), è la metafora dell'avidità di ricchezza, il "maiale" ne diventa simbolo appunto di avidità, mentre la sua testa descritta come un diamante simbolo di astuzia. Mazzarò dal nulla diventa riccho al tal punto che la sua roba si estende a perdita di vista e lui di vista ne aveva tanta!
Mazzarò oggi può essere elevato a moderna metafora di quei pochissimi individui, che a discapito di sovranità nazionali e della libertà dei popoli, tengono sotto scacco il mondo intero con l'economia e la truffa monetaria, rappresentata oggi come ieri dal signoraggio.
Anche l'artista CapaRezza ha interpretato Mazzarò nel suo celebre brano: "Ninna nanna di Mazzarò", canzone che (al di là delle posizioni ideologiche dell'artista che non condivido) ritengo geniale e di grande attualità.
Concludo con un osservazione: Mazzarò nella sua corporatura minuta mi ricorda molto il "piccoletto di Arcore", che tanto ha arraffato e continua a fare.
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Davide Pirillo
(Ass. Cult. ELMO ACHEO)
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VIDEO DI SIGNORAGGIO.IT CON CANZONE DI CAPAREZZA


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LA ROBA (Da LE NOVELLE RUSTICANE di GIOVANNI VERGA):
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.
Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l'arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di chi l'ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l'avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa, d'avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l'acchiappava - per un pezzo di pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano da mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l'abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva.
E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch'è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! -
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! -

sabato 29 maggio 2010

mercoledì 30 dicembre 2009

USURA MONETARIA... Dal corso di formazione militante tenuto nella sede di Forza Nuova Crotone - Agosto 2009.

La moneta nasce al fine di sopperire ad un'esigenza concreta dell'economia di scambio. Avere a disposizione ricchezza attuale da scambiare con ricchezza futura. Il baratto, infatti, consente uno scambio tra beni che sono esistenti nello stesso momento. Ma come fare per scambiare due beni che non esistono nello stesso momento (si pensi, ad esempio, ai prodotti alimentari che sono soggetti a diversi tempi di maturazione e raccolto)?
A tal fine nasce la moneta.
In principio la moneta viene coniata ricorrendo all'utilizzo di materiali preziosi quali l'oro e l'argento. In tal modo la moneta poteva essere scambiata su qualsiasi mercato poiché, anche prescindendo dal valore nominale della stessa, essa era in sé un bene prezioso poiché raro era il materiale di cui era composta.
L'evoluzione dei traffici economici spinge una nuova classe emergente, quella dei mercanti, a ricorrere a strumenti più veloci ed efficienti per effettuare i pagamenti. In un'epoca dove la navigazione è ancora molto rischiosa si rende poco conveniente portar con sé dell'oro sotto forma di moneta. Al fine di rimediare a questo inconveniente si sviluppano in Europa, accanto alla classe dei mercanti, i primi banchieri.
I banchieri ricevono in deposito il denaro (l'oro) dai mercanti e consegnano a questi dei documenti (cartacei) con l'ordine di pagare alla presentazione di detto foglio il medesimo quantitativo di denaro che si trova presso il banchiere di un'altra piazza.
L'operazione è molto conveniente: se io, mercante, voglio sviluppare i miei traffici nelle Indie posso recarmi presso un banchiere in Europa e, senza correre il rischio di dover portare su una nave molto oro, posso con un semplice pezzo di carta ricevere quell'oro a migliaia di chilometri di distanza; in fondo è vero che non riceverò proprio il mio denaro, ma il denaro è sempre lo stesso. Ciò che conta è che la gente riconosca che il pezzo di carta che mi ha dato il banchiere in Europa possa essere usato nelle Indie come se fosse oro, poiché chi prenderà detto foglio potrà sempre recarsi da un altro banchiere ed ottenere dell'oro.
Tale operazione comporta due vantaggi per il banchiere: il primo, palese, è dato dal prezzo per l'operazione effettuata (il banchiere è, infatti, un imprenditore privato che offre un servizio e pertanto ottiene un corrispettivo per lo stesso); il secondo, occulto, deriva dalla possibilità di zigrinare la moneta ed ottenere un po' d'oro da questa (la testimonianza di questa operazione di zigrinatura si scorge ancora oggi sulle monete presenti in tutto il mondo, queste infatti sono zigrinate sui bordi in "omaggio" a questa antica pratica), oro di cui il mercante si appropria senza pagare alcunché.
Tale sistema determina la nascita dei titoli di credito: il foglio di carta su cui c'è scritto quanto oro ha il soggetto che possiede il foglio stesso diventa, nella comune percezione delle persone, non più rappresentativo di un bene (l'oro), ma dotato di un proprio valore (estrinseco, poiché deriva dall'esterno cioè dalla gente, a fronte di un valore intrinseco pari a zero; il titolo non è altro che un comune pezzo di carta).
Detta pratica appare così agevole che con il passare dei secoli anche le monete vengono soppiantate dalle banconote in virtù di una semplice operazione: piuttosto che battere tante monete si decide di stampare tante banconote che corrisponderanno a quanto oro verrà depositato a chi stampa la moneta. Nasce così la carta-moneta. Se ad esempio mi vengono dati 10 chili di oro ed emetto 10 banconote ogni banconota avrà un controvalore in oro di 1 chilogrammo di oro.
Pertanto ad ogni banconota corrisponde un determinato quantitativo d'oro, in modo inversamente proporzionale al numero di banconote emesse; tale rapporto determina il valore della moneta ed, in teoria, più grande sarà il quantitativo di oro rappresentato maggiore sarà il valore della moneta. In virtù di questo sistema si vengono a determinare sul mercato internazionale i rapporti di cambio tra le valute.
Tale sistema dell'oro, almeno in teoria, ha un suo obiettivo: garantire gli scambi internazionali. Se ad esempio ricevo un pagamento in dollari americani so che potrò sempre chiedere la conversione in valuta locale e successivamente andare in banca ed ottenere dell'oro.
In realtà mai nessuno è andato in banca a chiedere l'oro. Ed è proprio per questa constatazione che nel 1944 (poco prima della fine della seconda guerra mondiale) viene siglato un accordo nella città di Bretton-Woods al fine di creare (dal nulla) un nuovo parametro di conversione: la media ponderata tra il valore delle principali monete dell'epoca.
Qualche decennio dopo, in forza di quel famoso accordo si è deciso di poter garantire l'emissione con la stessa moneta emessa (giacché il valore di quest'ultima non era più collegata ad un parametro interno, cioè l'oro detenuto dal singolo Paese, ma dalla media ponderata delle varie monete) giacchè si è deciso di ancorare il valore della stessa a nuovi parametri quali il rapporto tra deficit e P.I.L.1 Le banche pertanto non sono più tenute ad avere dell'oro in banca ma, accanto a questo, tante banconote in base al rapporto di cui sopra. In pratica la carta garantisce la carta2.
Il problema è che quella carta ha un costo.
E questo costo non è quello di produzione: cioè quello della lavorazione della materia prima, della stampa e della distribuzione. In realtà tutta la carta che viene prodotta viene prestata agli Stati in base al valore che sulla stessa è impresso, a cui si deve aggiungere un tasso d'interesse (variabile in base a dei parametri che non hanno nessuna logica) quale costo dell'operazione di prestito.
Ma quale rischio ha sostenuto l'imprenditore privato che produce la carta, o meglio le banconote?
Nessuno.
Avete capito bene: Nessuno.
Se pensiamo a quella che è la definizione comunemente accolta di imprenditore (soggetto che svolge un'attività economica assumendosi il rischio della stessa) comprendiamo come la banca non può essere considerata tale, ed infatti per i più la banca centrale è pubblica.
Ma ciò è falso.
La banca centrale italiana viene comunemente chiamata Banca d'Italia; in realtà è una società privata3, come la FIAT o la Ferrero, che presta i soldi allo Stato italiano. O meglio li prestava, giacché attualmente Bankitalia S.P.A. (con sede alle isole Cayman, il paradiso fiscale) è socia di un'altra società privata, la Banca Centrale Europea, che presta il denaro che stampa a tutti gli stati dell'Unione Europea.
Pensate che ciò sia falso? Domandatevi allora: chi è il creditore pubblico?
Se esiste un debito deve necessariamente esistere un credito e, poiché debito e credito fanno rispettivamente capo a dei soggetti, deve necessariamente esserci un creditore ed un debitore. Tali soggetti per forza di cose non possono essere la stessa persona: potete forse voi essere creditori e debitori di voi stessi? Potete chiedere a voi stessi un prestito e corrispondervi un interesse dell'1%?
Certamente no, a meno che non siate pazzi.
Se ciò è chiaro bisogna allora domandarsi: ma se lo Stato ha un debito (pubblico, proprio perché è dello Stato) chi vanta questo credito?
La banca centrale. Che non può essere dello Stato poiché se così fosse lo Stato sarebbe così deficiente da indebitarsi con se stesso.
Lo Stato purtroppo non è deficiente; è qualcosa di peggio.
Lo Stato attribuisce il potere di stampare moneta a delle società private, le banche centrali, e si indebita con queste perché pensa non di ricevere della carta ma il valore nominale che sulla carta è impresso.
Posto che la banca centrale è una società privata questa operazione ha un costo: l'interesse. Il saggio di interesse che la banca centrale applica è il prezzo che lo Stato deve pagare per avere il suo denaro.
Il denaro emesso, infatti, riceve valore poiché lo Stato lo riconosce come buono.
In realtà così facendo lo Stato si indebita senza via di fuga e perde ogni potere.
Se tutto dipende dal denaro chi controlla il denaro controlla tutto. Un medico può anche prestare la sua opera gratuitamente, ma avrà sempre bisogno degli strumenti per curare i suoi pazienti e se non ha il denaro non potrà acquistarli.
Ma perché non vi è via di fuga?
La risposta è molto semplice: perché l'interesse non esiste.
Se la banca centrale presta allo stato 100 banconote con un interesse dell'1% annuo alla fine dell'anno lo Stato dovrà restituire 101 banconote.
Corretto.
Ma in realtà le sole banconote esistenti sono 100, è solo la banca centrale che crea le banconote e queste sono 100; non ne esistono 101 e non ne esisteranno mai.
In tal modo tutti gli Stati si rendono schiavi delle banche che diventano così creditori di tutti i popoli della terra.
Ed a causa di questo interesse che lo Stato è costretto a tassare la ricchezza prodotta: le tasse, infatti, servono a pagare i servizi che lo Stato offre ai suoi cittadini. Per pagare questi servizi usa il denaro che riceve in prestito, che pertanto non appartiene allo Stato4.
Lo Stato, ovviamente, riconosce che quel denaro è "buono"5.
Ma questo denaro non gli appartiene, non è suo. Lo Stato, pertanto, è costretto a chiedere ai cittadini le tasse per pagare i suoi debiti (questa volta però il denaro non viene chiesto in prestito ma viene "sottratto" per sempre ai cittadini; così facendo questi si vedono sottratti parte del denaro che hanno lavorato).
Ma questo debito, che viene definito pubblico proprio perché fa capo allo Stato, non può essere saldato poiché il denaro richiesto per pagare il debito non esiste.
Ed allora cosa si fa?
Si riduce la spesa pubblica. Si chiedono cioè meno soldi alla banca centrale, si spendono meno soldi in servizi e si spera che tutti paghino le tasse.
Ma anche questo è inutile perché quell'interesse non può essere pagato: NON ESISTE!!
In realtà se la moneta fosse emessa dallo Stato non sarebbe necessario pagare le tasse. Infatti verrebbe emesso denaro in relazione ai servizi da offrire al popolo. Ed i lavoratori vedrebbero tutelati i loro sforzi poiché il denaro guadagnato rimarrebbe integralmente nelle loro tasche.
Ma quello della tassazione che non potrà mai pagare il debito pubblico non è l'unico problema. Ce n'è un altro: l'inflazione.
L'inflazione è il rapporto esistente tra la quantità di denaro emessa ed i beni circolanti.
Più denaro c'è in circolazione più costano i beni. E questo prezzo aumenta perché essendoci tanto denaro vuol dire che ogni singola banconota conterrà meno oro6.
A che voi direte: ma se oggi non c'è più l'oro questo discorso perde totalmente senso.
Ed infatti così dovrebbe essere ma, grazie a questo "simpatico" fenomeno, la banca emette meno moneta ad un costo più alto per far si che l'inflazione resti bassa.
Apparentemente lo fa per il bene dello Stato, in realtà lo schiavizza due volte: lo costringe a spendere di meno in servizi da un lato, e dall'altro determina delle fluttuazioni, volute e dannose, dei prezzi che annullano il ruolo dello Stato nel controllo dell'economia.
Se non circola denaro non posso produrre poiché non c'è denaro per comprare ciò che produco, al bene attuale non corrisponde un'unità di misura (il denaro) perciò la ricchezza presente non potrà essere scambiata con quella che verrà prodotta in futuro.
Ad esempio, se io produco 10 mele ed un altro 10 bottiglie di vino in teoria io posso scambiare ogni mela per una bottiglia o anche 2 mele per ogni bottiglia. La proporzione tra mele e bottiglie, 1 a 1 o 2 a 1, non è causale ma è determinata dalla legge delle domanda e dell'offerta: nel senso che se insieme a me c'è un altro che produce mele ed è disposto a pagare 2 mele per ogni bottiglia allora chi vende le bottiglie avrà interesse a vendere per 2 mele.
Il denaro serve solo ad evitare che io debba girare con un cesto di mele per far la spesa. Vendo le mele, mi danno dei pezzi di carta che io riconosco corrispondere al valore delle mele; do i pezzi di carta ad altri che, riconoscendo un valore a questa carta, mi danno in cambio i beni che loro producono.
Se il sistema funzionasse così non ci sarebbero problemi. Tanti beni tanta carta.
Ovviamente non tutti i beni esistono nello stesso momento. Pertanto è necessario che il denaro venga dato a chi produce i beni quando questi vengono ad esistenza.
Nella realtà il denaro viene creato senza tener conto di quanti beni verranno prodotti. O meglio, si fanno dei calcoli ma se poi si producono più o meno beni non si provvede ad aumentare o a diminuire il denaro circolante; non lo si fa perché quel denaro è stato dato in prestito e pertanto lo Stato l'ha già pagato.
E ciò è sbagliato perché il denaro non è altro che uno strumento di misura! Se devo misurare quant'è alto un muro non ricorrerò all'utilizzo di un metro da sarto, lungo appena 200 cm, ma utilizzerò un metro da carpentiere che mi permetta di avere la lunghezza giusta per effettuare la misurazione. E così dovrebbe essere per la moneta.
La moneta è infatti lo strumento con cui si misura il valore di scambio dei beni: se per un chilo di pane occorrono due bottiglie di latte dovrò emettere tante monete in modo da rispettare questa proporzione.
Darò, ad esempio, due euro a chi produce il pane ed un euro a chi produce il latte (cioè 50 cent per ogni bottiglia). In questo sistema il valore base di riferimento è la bottiglia di latte. Se questo rapporto viene mantenuto costante in base all'andamento della produzione, cioè per ogni nuovo chilo di pane vengono emesse monete così come per ogni bottiglia di latte, l'inflazione scompare.
Pertanto chi vende il bene oggi a quel dato prezzo sa di poter acquistare tot beni anche domani e dopodomani così come tra un anno.
Nella realtà questa previsione viene vanificata poiché non viene emesso il denaro in corrispondenza dei beni realmente prodotti. E non viene emesso poiché quel denaro, come detto prima, ha un costo. E questo costo fa aumentare il prezzo stesso dei beni che pertanto viene determinato da un prezzo reale (dato dai costi di produzione) e da un prezzo riferibile alla minor quantità di denaro esistente rispetto ai beni prodotti.
Di conseguenza se non circola denaro non vale la pena produrre, perché se è vero che ci saranno beni che costeranno più del loro valore reale ce ne saranno altri che costeranno di meno del loro valore reale; pochi ricchi e molti poveri non fanno un Paese felice, anche se si è in vetta alle classifiche mondiali (vedi Cina ed India).
Infatti, come nel caso della coperta troppo corta o ci si copre i piedi o le spalle; se c'è poco denaro ci sarà qualcuno che ne ha tanto ed altri che ne avranno poco o affatto. E chi ne ha molto non può certo assorbire tutta la produzione: in una crisi di liquidità come quella attuale (dove le banche mettono in circolazione poco denaro) la produzione dei beni comuni tende a ridursi mentre quella dei beni di lusso ad aumentare.
Nel caso in cui circoli troppo denaro lo Stato perde la Sua sovranità monetaria. Troppo denaro sta a significare che le banconote valgono sempre meno oro7; la gente, pertanto, tende a richiedere il pagamento con moneta forte (a cui corrisponde un quantitativo d'oro maggiore). Ma se i cittadini di uno Stato non riconoscono per buona la loro moneta allora non riconoscono come loro neanche il proprio Stato che pian piano perde autorevolezza e lentamente scompare (vedi la fine dell'U.R.S.S.).
Da quanto detto si desume che ciò che regge le sorti dello Stato è la banca centrale. Un soggetto privato che decide quante tasse dobbiamo pagare, quanta gente deve morire per mancanza di ospedali, quanti anni di mutui dovremmo pagare per essere proprietari delle nostre case.
E che sacrifici compie questo soggetto privato?
Nessuno.
Stampa moneta; è vero stampa della carta raffinata, ma sempre carta è. E presta questa carta allo Stato, il quale riconosce questa carta come la propria moneta ma non sa che non potrà mai pagarla. Perché la carta che serve per pagare la carta non esiste.
Cos'è il signoraggio dunque?
E' la differenza tra il costo della carta (la banconota, circa 30 centesimi di euro) ed il valore nominale impresso sulla banconota (ad es. 500 euro). Basta un attimo per stampare un po' di banconote ed avere ottenuto un profitto stratosferico (la differenza tra 500 e 0,30 euro moltiplicato per tutte le banconote da 500 € che vengono prodotte e così via per i diversi tagli).
Ma non è finita qui.
Lo Stato deve pagare l'interesse; perché questa carta a cui tu Stato dai il nome di moneta non è tua, è della banca.
Vi sembra che non ci sia soluzione? Sbagliato!
La soluzione c'è; è semplice:
Revocare alle banche il diritto di emettere moneta;
Stampare la moneta in proprio, quindi senza dover pagare interessi.
Così facendo si elimina il debito pubblico, si creano i servizi necessari e si eliminano le tasse.
Non è impossibile; è così semplice che sembra irreale.
L'unica follia è pretendere di dover pagare un debito che è impossibile pagare; dover restituire ad una banca una somma aumentata degli interessi senza che questa abbia affrontato alcun sacrificio.
Forse quanto detto non vi convincerà. Ma non c'è nulla di cui convincersi; questa è solo la verità.
Tutti i soggetti qualificati a cui chiederete delucidazioni sulla questione vi diranno che ciò che è scritto in queste poche pagine è follia; vi diranno che il compito della Banca centrale è quello di tenere basso il debito pubblico. Ebbene, quando sentirete parlare di debito pubblico chiedetevi e chiedete loro chi è il Creditore Pubblico.
Chiedetevi perché non vi parlano mai del creditore; di certo non può essere lo Stato: non è possibile essere debitore e creditore di se stessi.
E soprattutto chiedete loro come pagare un interesse che non esiste, da dove far saltare quella moneta che corrisponde all'interesse e che non è stata mai prodotta.
Continuate a pagare le tasse, continuate a lavorare per il Creditore. Il suo credito non si estinguerà mai, e voi trascorrerete fino al 50% della vostra vita lavorativa a lavorare inutilmente per lui.
E' lui che fa le regole del gioco e mentre noi giochiamo a risolvere i problemi con la politica lui ci schiavizza con la nostra moneta.
Se pensate che le cose son così e non si possono cambiare allora resterete degli schiavi per sempre; una catena d'oro è sempre una catena. Come dice Ezra Loomis Pound: Schiavo è colui che aspetta l'aiuto di qualcuno per essere liberato.
1 Cioè il rapporto tra la spesa pubblica (deficit; inclusivo del debito dello Stato nei confronti della Banca centrale) ed il Prodotto Interno Lordo (cioè la ricchezza prodotta).
2 In realtà ciò è in parte vero: la quantità di denaro che le banche devono tenere depositate presso le loro casse è pari al 2% dei depositi. Se una banca ha depositi per 100 presso le sue casse vi saranno solo 2 (c.d. riserva frazionaria). E gli altri 98? Gli altri 98 vengono prestati a coloro che hanno bisogno di denaro o in investimenti ad opera della stessa banca. Chi deposita è invogliato a farlo perché riceve un interesse e di solito lascerà sempre una certa somma sul suo conto; questo denaro che resta sul conto non rimane lì fermo altrimenti la banca dovrebbe creare l'interesse dal nulla. Ed allora che fa? Lo presta a chi ha bisogno di denaro per un interesse maggiore di quello che ottiene chi deposita. Rischia il suo denaro? Assolutamente no! Rischia il denaro dei risparmiatori e lucra la differenza tra l'interesse di chi chiede un prestito e l'interesse che deve pagare al risparmiatore. Questo interesse può essere più o meno alto ma, ad ogni modo, è "tutto grasso che cola" perché per ottenerlo non è stato fatto alcun sacrificio.
3 Le quote di partecipazione al suo capitale sono per il 94,33% di proprietà di banche private e assicurazioni, per il 5,67% di enti pubblici (INPS e INAIL).
I pricipali soci sono i seguenti: Intesa San Paolo S.P.A. (capitale: 30,3%; voti: 50), UniCredito Italiano S.P.A.(22,1%; 50), Assicurazioni Generali S.P.A. (6,3%; 42), Cassa di Risparmio di Bologna S.P.A. (6,2%; 41), INPS (5%; 34), Banca Carige S.P.A.(4%; 21), Banca Nazionale del Lavoro S.P.A.(2,8%; 21), Banca Monte dei Paschi di Siena S.P.A. (2,5%; 19), Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli S.P.A. (2,1%; 16), cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.P.A. (2%; 16).

4 Nessuno può prestare a se stesso ciò che è suo; il prestito necessita di due soggetti diversi: chi presta il bene e chi lo riceve in prestito. Lo Stato riceve in prestito il denaro che appartiene alla Banca centrale.
5 Tutti i cittadini, infatti, considerano il denaro emesso dalla Banca centrale quale idoneo mezzo per effettuare i pagamenti presenti e futuri; è cioè una valida unità di misura della ricchezza poiché può trasformarsi in qualsiasi bene.
6 Questo è quello che accadeva fino a qualche decennio fa. Il riferimento all'oro viene ripreso nel testo perché è più intuitivo per capire come la moneta tenda a svalutarsi. Oggi al parametro oro viene sostituito, per determinare il valore della moneta, il rapporto deficit/P.I.L. .
7 Si utilizza qui il riferimento alle riserve auree perché si intuisce meglio il perché si opti per determinate transazioni il ricorso a questa od a quella valuta.
8 E' questa in media l'aliquota fiscale massima prevista in molti Paesi del primo mondo.
E' lui che fa le regole del gioco e mentre noi giochiamo a risolvere i problemi con la politica lui ci schiavizza con la nostra moneta.
Se pensate che le cose son così e non si possono cambiare allora resterete degli schiavi per sempre; una catena d'oro è sempre una catena. Come dice Ezra Loomis Pound: Schiavo è colui che aspetta l'aiuto di qualcuno per essere liberato.